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“Ci metterei la firma!” I contenuti aziendali? Meglio firmarli

Fra i più noti e letti settimanali di politica ed economia, “The Economist” esiste dal 1843. I suoi articoli non riportano mai la firma del loro autore. È una decisione piena e consapevole che deriva dalla convinzione che la personalità collettiva conti più delle identità dei singoli giornalisti. 

Una certezza dunque: chi scrive per “The Economist” può essere sicuro che il suo nome non comparirà mai in fondo al pezzo. Un luogo ideale per: a) coloro che sono molto schivi e preferiscono non apparire b) per gli incalliti dell’understatement o c) se entriamo nel campo del content marketing, per coloro che non credono che sia necessario “firmare” i contenuti che producono e pubblicano perché “tanto è il brand che conta”.

Sì, perché quando si inizia un lavoro sui contenuti la questione emerge. Ovvero, i contenuti prodotti da un’azienda devono essere firmati? Che sia il direttore generale o lo stagista appena arrivato?
Capita che, dopo febbrili discussioni, si arrivi alla decisione di lasciare in bianco, perché “è chiaro chi siamo noi [l’azienda XYZ], c’è il nostro logo!” Ma siamo proprio sicuri che questa sia la soluzione più efficace da un punto di vista comunicativo?

Facciamo un passo indietro e chiediamoci a cosa puntiamo quando intraprendiamo la “dura e impervia “ via del content marketing fatta di produzione di contenuti di qualità, di scrittura, di approfondimenti che richiedono tempo, fatica o denaro (nel caso ci si affidi a un’agenzia specializzata).

[Risposta preparata del manager] “Ci aspettiamo di:

  • far crescere la reputazione della marca o dell’azienda, consolidandone o modificandone il posizionamento
  • farci ricordare, apprezzare e ovviamente –  come fine ultimo – scegliere dai target
  • coinvolgere e creare un legame di fiducia, di vicinanza e familiarità con coloro che sono già clienti o che potranno esserlo in futuro”

L’importanza della fiducia

Perfetto. Soffermiamoci sull’ultimo punto. La fiducia, specialmente quando non si ha una conoscenza diretta – un’esperienza – si costruisce sulle basi dell’autorevolezza e della competenza. Mi fido perché credo, percepisco o so che quello che mi viene raccontato non solo è vero (e questo è il minimo…) ma è anche autorevole in quanto:

  • frutto di un’analisi seria e approfondita
  • contiene informazioni privilegiate
  • fornisce dati, concetti, soluzioni di cui non ero a conoscenza.

Che sia un avvocato che si occupa di merger & acquistion, un sales manager di valvole per l’oil&gas o uno sviluppatore di sistemi per la sicurezza digitale di un’importante azienda informatica poco importa. Il contenuto acquista valore (agli occhi del lettore) perché proviene da un “esperto” in quel particolare settore; da una persona competente, preparata, che conosce le regole, i dati, il mercato, le novità.

Facciamo un esempio

Ipotizziamo che io sia un responsabile della sicurezza digitale di una catena alberghiera e che  sia venuto in contatto con la Totally Unnecessary Production, una nota società di software di cui, pur avendo già sentito parlare – non avevo mai testato i prodotti.
Ipotizziamo che desideri saperne di più su quei software di riconoscimento facciale e che mentre cerco su Google o scrollo il feed di notizie su LinkedIn mi imbatta in un articolo/contenuto in cui il signor Mario Rossi, manager della Totally Unnecessary, mi spieghi l’utilizzo, le potenzialità, i pro e i contro, l’evoluzione tecnologica di programmi simili, le normative. E lì scopra che, oltre a quell’articolo, il signor Rossi ne ha scritti altri, sempre interessanti per la mia professione.

Non solo. Mentre passo in rassegna i contenuti presenti sul sito aziendale (articoli, video, paper etc.) mi accorgo che si rimanda ad altri contenuti potenzialmente degni di attenzione, anch’essi scritti da altrettanti manager dell’azienda, come miss Jane Doe o monsieur Toutlemonde (è una multinazionale, abbiamo detto…).
Magari di ognuno di loro trovo una piccola biografia, l’indirizzo email, qualche notizia sul loro ruolo o ancora meglio il bottone che mi rimanda al profilo professionale su LinkedIn. Addirittura  potrei vederli in volto, con una fotografia (in piccolo, meglio se coordinata con quella degli altri colleghi…).
Mi sento più coinvolto, più sicuro, tanto da spingermi a salvare la sezione “blog” o “news” del sito web della Totally Unnecessary (incredibile!) a iscrivermi alla Newsletter o alla pagina social.

Quanto vale tutto questo? Molto in termini di crescita di reputazione. Io in tanto mi ritrovo a pensare che un’azienda che ha fra i suoi dipendenti persone preparate come Mario Rossi, Jane Doe o monsieur Toutlemonde è forse degna di fiducia. Può essere una piacevole sorpresa (non immaginavo che la Totally Unnecessary fosse così) o una conferma di quanto già provavo – in astratto – grazie alla reputazione che si portava dietro.

“Sì d’accordo” – direbbe il nostro manager che non vuole firmare il contenuto – “ma io non voglio che il brand venga offuscato!”.

Beh… il brand è tutt’altro che nascosto.  È sempre presente: nel blog, nella pagina LinkedIn, nell’estensione dell’indirizzo della Newsletter. E soprattutto segue – ben evidente – il ruolo dei miei nuovi e “stimati amici” Mario Rossi, Jane Doe e monsieur Toutlemonde.

Ma è proprio lì, nell’estensione del loro indirizzo email, appena dopo la firma sull’articolo.

[FIRMATO Marta Mazzanti & Alessandro Seregni]

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